Ci risiamo. Il post sulle serie tv significa solo una cosa: che ho avuto molto tempo da trascorrere a casa, e tempo in casa preferibilmente non da sola, ovvero, lockdown! Quando la vita da non -ancora- conviventi scorre normalmente è davvero ormai difficile che in solitudine io riesca a iniziare, seguire e completare in tempi decenti un nuovo telefilm (ci ho provato con Emily e sarà che l’ho trovato davvero mediocre, ma ci ho messo un mese a guardare 8 episodi…): il giorno preferisco passare il mio tempo in modo più attivo mentre la serata normalmente si passa insieme, ma essendo in case diverse comincia molto tardi, col risultato che spesso per finire una puntata ci mettiamo pure due giorni. Non c’è che dire, la quarantena si rivela sempre l’occasione migliore per portare a termine nuove serie tv e non essere sempre in ritardo coi tempi per quanto riguarda le nuove uscite!
The queen’s gambit
The Queen’s Gambit insieme con la sua protagonista Beth Harmon hanno conquistato i cuori degli abbonati di Netflix schizzando al primo posto della Top Ten in pochissimo tempo. La serie tv narra in 7 episodi della vita della talentuosa scacchista Beth, partendo dalla sua difficile infanzia in orfanotrofio a seguito del suicidio della madre fino alla sua ascesa al titolo mondiale, senza trascurare la dimensione affettiva (e le iniziali difficoltà della protagonista ad amare e lasciarsi amare), con uno sguardo alla condizione femminile della donna all’epoca, particolarmente in un ambiente dominato soprattutto da uomini come quello degli scacchi, e alla sfera delle dipendenze da cui Beth è affetta fin da piccola e a cui si è sempre tenuta attaccata per il sostegno che l’uso di certe sostanze le garantiva nel mettere a punto le strategie per i suoi tornei.
Ok, ma voi non volete leggere i soliti discorsi impersonali che potete trovare in ogni recensione presente in rete. Quindi passiamo alla ciccia: Beth non è il classico personaggio che tutti amano, è enigmatica, riservata, chiusa, diffidente. Di quelle che sembrano snob, e invece nascondono sempre quel velo di disagio esistenziale. Eppure, grazie anche all’interpretazione di un’impeccabile Anya Taylor-Joy, penso sia impossibile non cedere al suo fascino e a non empatizzare nonostante il suo essere una figura decisamente sui generis. Connaturatamente elegante e composta anche nei suoi momenti di buio più profondo, apparentemente fredda ma con la capacità di darsi a poco a poco alle persone che guadagnano la sua fiducia, di essere magnetica e ottenere al contempo stima e rispetto.
E’ una serie che mi ha conquistata sin dal primo episodio e che mi ha tenuta incollata fino all’ultimo, momenti delle partite compresi nonostante il mio essere stata, fin a quel momento, una totale ignorante di scacchi (pensate, non ne avevo mai preso un pezzo in mano). Difficile non terminare la visione e non avere voglia di cominciare a conoscere (o riprendere in mano) il mondo degli scacchi. Apprezzatissimi scenografia, costumi, colori che contribuiscono a ricreare un’ambientazione verosimile e immergersi nell’epoca rappresentata. Numero di episodi a mio avviso perfetto per sviluppare in maniera sufficiente tutti gli aspetti presi in questione (nonostante in alcuni momenti abbia percepito persino un eccessivo salto temporale) senza annoiare lo spettatore: una puntata in meno sarebbe stata manchevole, una in più forse sarebbe stata ridondante. Ben indagato e sviluppato, nonostante fosse un elemento secondario, il rapporto con la madre ma appena sfiorato, per il dispiacere degli amanti del romance come me, quello con l’unico uomo che Beth amerà veramente, che resta velatamente aperto per tutto il corso degli episodi ma che viene frettolosamente concluso in un finale dai contorni piuttosto sfumati.
Per avermi tenuto incollata al divano, avermi fatto terminare ogni episodio con la voglia di andare avanti, per avermi fatto appassionare a un gioco (/sport?) di cui non sapevo menzionare neanche le componenti, per avermi accontentato con del buon sano ma non eccessivo sentimentalismo (per gli habituée di serie tv, fanfiction ma anche solo delle mie recensioni = per avermi generato delle belle ship che stanno a metà tra amore e bromance, come quella tra Benny e Beth): voto 9+ tutto meritato.
The haunting of Bly manor
Direi che in questo caso partire da un riassunto della trama è la cosa migliore: a fine anni ’80 la giovane statunitense Danielle, dopo aver superato un colloquio insolitamente lungo e insidioso per un ruolo da baby sitter, viene assunta dallo zio dei bambini di cui dovrà occuparsi, rimasti orfani, come nuova au pair presso la residenza Bly, in Inghilterra. La vicenda della ragazza è raccontata a sua volta da una voce narrante che appartiene a un personaggio che sembra collocarsi in un’epoca successiva, anche se non si specifica di chi si tratti. Va da sé che tata+enorme magione spersa nella campagna+bambini piccoli un poco “particolari”, se vogliamo, non può che dare come risultato un horror (ma non troppo) che non prescinde però da elementi drammatici e romantici. Un intreccio ben riuscito se non forse per gli amanti dell’horror puro per cui l’ago della bilancia potrebbe risultare più spesso spostato verso gli ultimi due generi. Sin da subito i bambini cominciano a manifestare comportamenti eccentrici (nonché parecchio inquietanti a tratti) e benché non si raccolgano risposte se non negli episodi finali anche la nostra tata si accorge ben presto che in quella casa succedono cose strane. Altri personaggi minori sono la governante Hannah, il cuoco Owen e la giardiniera Jamie, con la quale la protagonista intreccerà una relazione amorosa. La serie è ricca di flashback che riportano a quando la ragazza che ricopriva il ruolo di au pair prima di Danielle, della cui morte si fa menzione già nei minuti iniziali, lavorava ancora nella magione e portava avanti il suo rapporto con l’enigmatico Peter Quint, assistente dello zio dei bambini. Anche la storia d’amore tra i due sembra da subito ricoprire un ruolo importante nel racconto, così come tanti altri dettagli e dialoghi che sembrano di primo acchito superflui e persino noiosi. E’ un telefilm che inizia lento e continua a scorrere lento per i primi episodi ma una volta arrivati alla fine ci si rende facilmente conto di come tutto ciò che ci è stato detto è mostrato sia stato perfettamente spiegato dal finale, che chiude perfettamente il cerchio non lasciando che alcuna domanda non abbia la sua risposta. Ci è voluto un po’, forse anche perchè non il mio genere d’elezione, prima che mi prendesse ma nel momento in cui ho cominciato a mettere insieme i pezzi (indicativamente all’episodio 7) ho visto tutta la genialità dietro l’intricatezza della trama.
Voto: 8
We are who we are
Io non lo so se un telefilm può piacere per l’interpretazione di un solo attore, per l’essersi totalmente innamorati di un personaggio, ma questo è ciò che sembra essere successo a me con We Are Who Are, mini serie di 8 puntate diretta da Luca Guadagnino. Nel lavoro del regista italiano, infatti, ho trovato alcuni elementi disturbanti. Non è la serie tv a cui siamo abituati, in cui il filone narrativo è ben delineato e tutto è volto al rispetto e al raggiungimento dell’obiettivo della narrazione, in cui tutto trova un suo senso e una sua collocazione. No, qua ci intrecciano scene apparentemente (o per davvero?) del tutto estrapolate dal contesto, dialoghi strani e inverosimili, spezzoni e momenti“odd” a metà tra estremo realismo e fantasia più sfrenata. Lo stile delle riprese è quasi documentaristico, con lunghi momenti che potremmo definire “morti”, in cui l’attenzione è posta sui protagonisti o su elementi dell’ambientazione a scapito del lineare scorrere del racconto dei fatti. Ho avuto spesso la sensazione scomoda che ci si soffermasse molto su dettagli (irrilevanti o meno non sta a me dirlo) e si venissero a generare dei veri e propri salti quando magari rispetto a un determinato accadimento ci sarebbe stato di più da spiegare, più tempo da dedicare al far capire allo spettatore come e perchè siamo giunti a quella conclusione. Il cast stesso genere confusione, in una mescolanza strana tra star di calibro internazionale come Sevigny e lo stesso Grazer e ragazzi che sembrano pescati un po’ a caso dai paesini della periferia veneta. Vedere un magistrale Jack Grazer accanto all’inglese e all’italiano (e alla recitazione) inciampante dei giovani veneti parlanti dialetto suonava un po’ come una nota stonata. Probabilmente tutto ciò è stato voluto, probabilmente l’intenzione non era quella di deliziare il pubblico con un prodotto perfetto. Sicuramente. E nel corso della visione li ho pure imparati ad apprezzare quei momenti strani e di scarso senso logico eh. Ma credo che il risultato ottenuto dalla serie alla fine di tutto riesca ad essere positivo soprattutto per il personaggio di Fraser e per le doti dell’attore che lo interpreta.
Grazer si cala perfettamente nei panni del freak di turno, del nuovo arrivato che per il suo stile particolare e il suo comportamento bizzarro non può che attirare l’attenzione di tutti, insieme a qualche antipatia. Nonostante i suoi tentativi Fraser non riesce mai a integrarsi, se non con Caitlin/Harper, con cui riuscirà a stringere un forte legame di amicizia nonché di comprensione reciproca, in un momento in cui forse è difficile anche per loro per primi capire se stessi.
Ho apprezzato la sincerità con cui temi come l’identità sessuale e quella di genere vengono affrontati, la naturalità della scoperta, della confusione, il bisogno della condivisione con chi può capirci, senza far sembrare tutto questo qualcosa di fuori dal comune o inusuale. Al contempo il fatto che le cose non vengano mai chiamate col loro nome può far risultare agli occhi dello spettatore tutto poco chiaro, generare un disorientamento forse voluto, che riflette quello dei protagonisti stessi. Finale compreso e finale in particolare. Avremo una seconda stagione? Si propone di rimanere un finale aperto? Mi disturba il fatto di non sapere cosa significhi veramente quell’ultimo gesto che pone fine all’episodio conclusivo? Decisamente sì.
Ho riflettuto a lungo sul perchè abbia trovato difficoltà ad apprezzare in toto questo telefilm e le risposte, alla fine me le sono e ve le ho date. Un insieme di motivi che vanno dalla fotografia, al ritmo incostante, agli ostacoli alla linearità dell’intreccio fino alla difficoltà di affezionarmi a(gl)i (altri) personaggi e, devo essere onesta, forse anche al fastidio di non aver visto per la prima volta avverate le mie previsioni e le mie aspettative.
Ho pensato spesso che lo screenplay sarebbe stato perfetto per un film, ma pessimo per una serie tv. Insomma, ho trovato un difetto a tutto, meno che a Jack Dylan Grazer. Grazer ha fatto la serie tv. Per questo trovo un’immensa difficoltà nell’arrivare a un voto. 10 per(ché c’è) Grazer, 5 se cerco di prescindere dalla sua presenza. Facciamo una media?
SPOILER (Postilla matura: ma non ce li meritavamo Fraser e Jonathan insieme?? Era chiedere troppo?? DE-LU-SIO-NE! Questo risvolto ha clamorosamente abbassato il voto, lo ammetto)